giovedì 17 dicembre 2009

Rileggendo la letteratura di destra


di Stefano Pietrosanti
Ultimamente mi sono ritrovato a guardare uno scaffale di libri letti e a trovarci in fila Tolkien, Borges, Junger, Pound. Praticamente la biblioteca di un pericoloso proto-fascista. Ora, contando che questo non è vero, ne desumo un paio di riflessioni. Prima: l’Italia, in quanto correa del nazifascismo e preda di una fortissima rimozione che l’ha privata di una riflessione seria e consequenziale sui suoi anni più tragici, ha avuto il suo cervello culturale monco. Certo, abbiamo contato tra i nostri cittadini degli ultimi settant’anni grandi e corposi pensatori, ma come entità nazional-culturale siamo stati contraddittori e pieni di rivalità sia sottese che evidenti, comunque molto ottundenti. Di questa condizione dolorosa è a mio parere un segno l’etichettatura politica che a lungo ha giocato al tirare per la manica grandi scrittori ora da una parte, ora dall’altra, ammazzandone comunque la fruibilità e sterilizzando la riflessione sia sul passato letterario recente che sul presente. Con questo non voglio negare che almeno uno degli autori citati esprima valori universalmente ed esclusivamente di destra, né voglio dire che l’ideologia e il pensiero politicizzati siano un male, ma semplicemente constatare (senza vantare nessuna originalità, oltretutto) uno dei tanti effetti della nostra storia recente che, schiacciando le forze pensanti del paese tra i partiti chiesa ci ha regalato due generazioni di classe dirigente formata o alla scuola della piazza, o a quella dei suddetti partiti. Perché è anche e in via preponderante questo che conta per creare l’humus culturale: ciò che legge, pensa, fa la classe dirigente di una nazione è quantomeno altrettanto importante di ciò che legge, pensa e fa il ceto intellettuale specialistico. A seguito di quegli stridori, malvissuti conflitti e lacerazioni, ho la sincera paura che negli anni settanta sia cominciato un percorso che continua tutt’ora in cui si è andato perdendo il giusto equilibrio tra speculatori – prendiamo per esempio un Giorgio Colli – che fortunatamente permangono e uomini di alta professione intellettualmente formati - tirando un nome mi verrebbe da dire Scalfari - che si diradano. Che c’entra con la cattiva lettura della letteratura così detta di destra? C’entra in quanto solo una classe dirigente mal formata può ingurgitare testi, vomitarli con l’etichetta di schieramento e dimenticarseli tutti in nome della faciloneria. Seconda: perché mi piacciono – e piacciono – questi autori? Credo perché è facile trovare in loro (come d’altronde in Heidegger) un gusto della struttura e della complessità e anche – in alcuni – una oggettività scientifica del linguaggio molto rassicuranti in una realtà sempre più destrutturata e liquida; precisione e concretezza che si coagulano attorno alla figura dell’uomo come individuo, come essere assoluto e autogiustificantesi. Senza l’esaltato languore di un D’Annunzio, ma con una forza studiata e solida questi autori hanno armato l’uomo di una corazza adatta a questi tempi: la corazza dell’Anarca, del Ribelle, di centro di senso; sono stati gli araldi di un umanesimo rabbioso che è più utile che mai per comprenderci, in quanto distillato del senso di difficoltà di pensiero e d’azione dell’uomo di fronte all’enormità. E’ un pensiero che ha tutti i pregi e i difetti dell’uomo cresciuto tra le difficoltà, solido ma pieno di nevrosi, asperità e luoghi bui. Preso però nella sua completezza può essere un compendio di errori utili da conoscere perché da non ripetere, ma soprattutto di ricchezza di senso, una ricchezza che non rinuncia ad una dimensione artigianale, di lungo, lento lavoro per catturare il frammento di granito che solo può reggere la complessità di ciò che ci contorna.

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