martedì 7 settembre 2010

Torneremo


di Stefano Pietrosanti
“Volveré y seré milliones.” Perfetta immagine incastonata in un ottonario altrettanto semplice e perfetto.
Torneremo e saremo milioni.
Lo disse Eva Peron prima di morire, o di fuggire, non ricordava bene. D’altronde, Eva Duarte Peron non era ancora nata e lui non avrebbe dovuto sapere nemmeno lo spagnolo, ma ricordava – a tratti – frammenti di futuro.
Confinato in un letto bianco, in una vestaglia bianca, stremato. Farfugliante, i baffi incolti, lo sguardo triste.
“Da quali stelle siamo caduti per incontrarci qui?”
Questa frase l’aveva pronunciata lui, nel passato, ma a volte non ne era sicuro.
La sorella lo mise seduto, lo convinse ancora una volta a mangiare. Chi era poi lui? Bacco, il Crocifisso, un verme, un granello di sabbia; solo un modo complicato di dire che non era. Certo non poteva più parlare. Certo, ecco chi era, ecco! La Parola! Friederich Willelm Nietzsche.
Saremo milioni. Saremo milioni perché già lo siamo stati, lo siamo, lo saremo.
Se lo spazio facesse le veci del tempo, vedremmo un’infinità di fotogrammi allinearsi in file perenni di una consequenzialità nuova e senza definizione; camminerebbero sullo scorrere dei secondi, gli anni sarebbero solo solchi sulle loro strade.
Punti focali di vite permeate dalla nostalgia di se stesse.
“Da quali stelle siamo caduti per incontrarci qui?”
“E soprattutto perché siamo caduti?” lo pensava, steso nel letto, sottoposto alle cure diligenti e sorde della sorella, ma non poteva dirlo, non poteva urlarlo, così tanto aveva tenuto dentro questo, così tanto.
Solo l’eccessiva pienezza, d’altronde, porta all’esondazione.
Anche la musica. Ora sapeva. Non Uomo, non Dio, non Mondo. Ricordava perfettamente il momento in cui era tracimato, in quello slargo a Torino, con in cielo un tramonto giallo sui palazzi pietrosi (o erano case di piccoli mattoni e malta strana, da farsi un secolo dopo?). Tutto era avvenuto in due momenti: prima un’immaginazione. Era fermo nel suo tabarro sul marciapiede umido, si era pensato steso in un letto, abbracciato a una donna cui carezzava i capelli castani. Si era avvicinata una carrozza. L’abbraccio continuava silenzioso nella sua mente e lui si era sentito come sbilanciato, come sul ciglio di un dirupo. Il cocchiere aveva frustato l’animale. Una, due volte. Del sangue era schizzato attorno. Lui era tracimato con quel sangue. Con un singhiozzo strozzato, era caduto.

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