martedì 9 novembre 2010

Guccini tra musica e poesia


di Stefano Pietrosanti
Al netto di tutte le piacevolezze non musicali, dello stare in un luogo pieno di persone che bene o male la pensano come la pensi tu, dell’ascoltare una persona da cui sprizzano chiari e tondi valori che dovrebbero essere condivisi da tutti i cittadini (tra cui l’adesione al senso di quella che, con termine magari arrugginito, potrebbe essere definita “storia patria”), parliamo della musica che è stata suonata sabato sera al Palalottomatica, ossia della musica di Guccini. Lo facciamo compiendo una riduzione, ossia parlando del ruolo poetico del cantautore di Pavana.
E’ cosa abbastanza evidente che in Italia i cantautori, da dopo la morte di Montale, abbiano definitivamente soppiantato il ruolo dei poeti “puri”, ossia quello di persone che mettono in versi un sentire, che lo condividono con un vasto pubblico e che fanno tutto questo tramite un metro e tramite la ritmicità della parola. Seguendo questa linea di ragionamento, mi sembra evidente come Guccini si possa inserire nel solco della poesia tipicamente italiana: artigianale, contadina, “storica” in quanto profondamente legata al fiume carsico dei sentimenti come possono scorrere solo in pomeriggi caldi, deserti, assolati, tra campi e piccole città, trasportando con la loro massa personale e privata, frammenti e brandelli del fatti che segnano il tempo di tutti. E’ interessante come l’autore forse più associato all’idea di sinistra militante e un po’ barricadiera, sia inseribile nel novero di quella che si potrebbe chiamare “grande arte conservatrice”, quel cammino di singoli pensatori che hanno avuto i nomi di Pascoli, Carducci, Borges, Montale, tutti – con le loro evidenti discordanze – dediti al cesello della parola per far riflettere in questa il distillato etereo dell’umanità. Dico “conservatrice” affatto in senso politico, ma in senso più semplice e profondo, diciamo morale. Quell’arte che con grande umiltà si limita a descrivere, e che per farlo evita qualsiasi rumore eccessivo, evita l’urlo se questo può infrangere il materiale narrato, quell’arte che per profondo amore di ciò che narra lo ricopre del velo sottile appena necessario – né più né meno, nei casi migliori – per contenere la rivelazione di un qualsiasi momento vissuto e catturare in questo l’insieme di movimenti d’animo che il momento ha suscitato, trasferendo questi movimenti a noi. Co-muovendoci. Perché “Lettera”, terza canzone suonata, questo è, come quel “Melograno” di Carducci così deturpato dalle letture scolastiche. L’eccezionalità della coscienza che davanti a un evento terribile, come la scomparsa di qualcuno di caro, pur capace di gettarsi nei baratri immaginari eppure tremendi che la mente apre non lo fa, si ferma e compone una canto misurato al sentimento di una perdita che è – per l’uomo – anche il sentimento del mondo. Un canto che riconosce al limite il ruolo fondamentale di salvaguardia della vita cosciente, pure e proprio quando il limite si rivolge contro di noi.

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