martedì 7 dicembre 2010

Contro Beata Ignoranza non basta Santa Pazienza


di Pierpaolo Capezzera
Lo slogan risale ad un paio di anni fa, quando la ministrella scese in campo per risollevare le sorti della scuola italiana, ma, essendo la sua lotta tuttora vivida, credo che siano parole ancora oggi attuali. Andando infatti ad analizzare la riforma Gelmini, al di là del tanto decantato abbattimento del potere dei Baroni, si evincono degli spunti a dir poco interessanti: innanzitutto lo stesso problema del controllo baronale. Come mai, infatti, se è vero che il rettore diventa una figura più gestibile a livello statale, è stata proprio la Conferenza dei rettori ad appoggiare il decreto in prima linea? Per un semplice motivo: tale figura potrà reggere l’ateneo e presiedere il Consiglio d’Amministrazione. Scelta pelidea, dunque: meglio una vita breve e gloriosa che una lunga ed anonima.
Un altro punto affascinante, e notevolmente più ampio, è l’aspetto economico della riforma in tutte le sue sfaccettature: nonostante il leitmotiv dell’economicità della sua attuazione, è facile rendersi conto che questa deriva da un impoverimento progressivo dell’istituzione scolastico/universitaria e dei suoi partecipanti: i tagli alla ricerca, il 90% in meno delle borse di studio, 1571 borse di dottorato in meno sono capisaldi dell’azione ministeriale degli ultimi due anni fin troppo evidenti per poter essere trascurati. Nelle ultime settimane sono stati sottratti all’Università Pubblica 900 milioni più altri 100 per il diritto allo studio, probabilmente perché gli studenti seri, stando a casa a studiare, non abbisognano neanche di una struttura adeguata alle proprie necessità, quindi meglio destinare questi fondi al sostenimento delle spese delle 500 disposizioni e dei conseguenti 100 regolamenti attuativi necessari alla riforma. Insomma un circolo vizioso destinato a non finire, mentre si va ad ingrassare sempre più il porco degli atenei privati (i finanziamenti aumentano del 65% circa), nonostante l’art. 33 della Costituzione sancisca che “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Senza contare che non si risolve affatto il problema economico che colpisce principalmente la maggioranza degli studenti universitari: la diminuzione dei buoni mensa, la totale assenza di regolazione degli affitti (il prezzo di un posto letto a Roma in una stanza doppia non troppo distante dalle facoltà varia a partire da 300 euro spese escluse), la totale assenza di un rimborso almeno parziale sull’acquisto dei testi (per quanto mi riguarda, ogni esame mi costa almeno 60 euro di materiale scolastico). È chiaro quindi che il presunto regime meritocratico su cui si vorrebbe basare questa nuova Università è in realtà una Meritaristocrazia. Della cara, vecchia Università pubblica, non resta che una carcassa agonizzante dietro la quale aleggia il fantasma di una privatizzazione ufficiosa, alla quale, per essere anacronistici (ma in fondo neanche troppo, visti i tempi moderni) il proletariato non potrà prender parte. E chissà che il prossimo provvedimento non sia la restaurazione della tradizione epistemologica non scritta, vista la propensione all’oralità della cara marchettara dell’Istruzione.

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