martedì 22 febbraio 2011

Il mio nome è Bond, Euro-Bond


di Stefano Pietrosanti

Parlare di e-bond sembra starsi dimostrando più di una moda passeggera, un’idea brillante o un fazzoletto da taschino da sfoggiare nei meeting interministeriali. A prima vista potrebbe apparire un buon segno, soprattutto per i fautori di uno Stato Europeo che non abbia paura di se stesso e di tutelare i suoi cittadini. Ma riflettiamo assieme.

Un monito ce lo da il professor Spaventa nel suo intervento in una recente conferenza sui rischi fiscali all’università La Sapienza di Roma, facendosi (e facendoci) la domanda : “Ma cosa vanno a finanziare questi e-bond?”

Perché l’ipotesi più in voga è che queste obbligazioni europee servano a rinnovare una frazione dei debiti nazionali pre-esistenti, divenendo in parte assicurazione per gli investitori della solvibilità continentale e in parte strumenti di un mercato di credito agevolato cui gli Stati potrebbero accedere per rifinanziare una certa quota di debito, magari anche – mi viene da pensare – le nuove quote marginali, ossia più a rischio e più difficili da finanziare.

Anche questo potrebbe essere un passo avanti, ma c’è un abisso tra una simile operazione e un emissione di debito europeo per finanziare progetti europei che un domani renderanno più semplice la vita a cittadini dell’Unione, fruitori di grandi servizi continentali costruiti con lo sforzo – quantomeno finanziario – di tutti.

Il problema, come mai chiaro ed evidente, è la dannata pericolosità di far convivere delle istituzioni piccole, spesso impotenti e sempre permalose come le nostre patrie nazionali, con un teorico mastodonte-Unione che però è rappresentato da una classe politica normalmente rinunciataria e quiescente, che guarda troppe volte a se stessa come legittimata non dalla volontà maggioritaria dei cittadini europei, ma dall’indulgenza delle nazioni. In una simile situazione, con il tira e molla connaturato a una dolorosa crisi di lungo periodo, si profila la possibilità che il pensiero a breve termine dei governanti trasformi - tramite un istituto veramente federale quale sarebbe un debito pubblico europeo - l’Europa nella bad-company delle loro disfunzionanti case madri.

Se si fa un debito continentale, ma la legittimazione democratica dei decisori di ultima istanza è a livello nazionale, ci si potrebbe avviare verso una palude di liti su chi deve pagare cosa. Così le istituzioni europee mettono la loro faccia sui mercati senza chiedere un briciolo di sovranità in più e, soprattutto, senza avere una voce chiara e pronta a difenderle se, in un futuro non troppo lontano, qualcuno tentasse di farle passare per “sanguisughe che chiedono gli interessi, spennando le povere nazioni indifese”, castroneria che già mi sembra di sentire nella bocca di coloro che riescono a sostenere che sarebbe non dannoso, possibile e persino auspicabile un ritorno alle valute nazionali.

C’è una questione di fondo che gli Europei devono cogliere nella sua fastidiosa concretezza: il loro voto democratico porta all’elezione di soggetti che sono sempre meno capaci di mutare la legittimazione popolare che gli viene data in un azione politica di governo. Governi che non possono governare, ossia che non possono dare una forma concreta e razionale alla volontà popolare, tendono per legittimarsi a scippare il ruolo ai Parlamenti, ossia credono di essere depositari di una sovranità, quando invece di una sovranità dovrebbero essere interpreti ed esecutori; da qui, a preservare il proprio ruolo di classe dirigente in quanto tale (un tempo si diceva oligarchicamente) il passo è molto breve e forse già compiuto.

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