martedì 8 marzo 2011

Gli Africani nuovi rivoluzionari


di Claudia Giannini

Era il 1965 quando Herbert Marcuse, in “La tolleranza repressiva” e prima ancora ne “L’uomo a una dimensione” riconosceva alle popolazioni del Terzo mondo e in generale ai popoli africani lo status di nuova classe rivoluzionaria. Insieme agli studenti, agli immigrati, ai disoccupati, insomma a tutte le frange della società cui l’integrazione e l’ascesa sociale sono precluse o difficoltose. Lungimirante viene da dire oggi, gettando un occhio a ciò che sta accadendo nei Paesi Maghrebini. Un effetto domino che sta sradicando, partendo dal basso, sistemi dittatoriali che da decenni tengono in scacco le popolazioni nord africane, primo fra tutti il regime di Gheddafi. Lo stesso regime amico del nostro Paese, grazie alla diplomazia da salotto del nostro Presidente del Consiglio, tanto da permettere al Colonnello di vantarsi per aver ottenuto dall’Italia un indennizzo per gli anni di controllo coloniale. Lasciando da parte le possibili implicazioni internazionali, che restano comunque fondamentali, ciò su cui bisogna soffermarsi è il peso valoriale e sociale che hanno gli avvenimenti del Nord Africa. Se pensiamo alla situazione di immobilità democratica e di stallo partecipativo che riguarda il nostro Paese, fanno riflettere le manifestazioni di piazza in Libia o in Tunisia, dove il popolo avanza clamoroso per reclamare i propri diritti, per troppo tempo negati.

Unico barlume di ribellione qui in Italia, rispetto a un sistema dittatoriale a mio avviso in maniera silenziosa e subdola, l’abbiamo avuto con gli studenti nelle piazze. Ecco che quasi come una profezia, le parole di Marcuse tornano in primo piano. Se poi, guardandoci indietro pensiamo alle rivolte di Rosarno, agli immigrati che non ci stanno a subire ulteriori soprusi e discriminazioni, il quadro è completo.

Unica pecca nel filosofo della scuola di Francoforte è che, pur avendo previsto mobilitazioni e rivolte così come si stanno verificando, non ci dice come tramutare il malcontento, il sommovimento e la rivoluzione, in un sistema alternativo che contemperi le esigenze dei più diversi soggetti sociali.

Il problema in ultima analisi è proprio questo. Va bene la rivolta, va benissimo la rivoluzione, ma questo sangue deve tramutarsi in un miglioramento, non nel passaggio di testimone da una dittatura militare a una dittatura, magari addirittura estera, mascherata da missione di pace.

La speranza quindi è che gli attori sociali responsabili dei movimenti, riescano a maturare una predisposizione alla democrazia che nasca dall’interno, limitando l’ingerenza estera a uno strumento d’aiuto, rispetto a un progetto contestualizzato e voluto dall’interno di ogni singolo paese.

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