mercoledì 27 aprile 2011

Cosa succede in Italia



di Stefano Pietrosanti



Mi ritrovo nuovamente a sentire il bisogno di spiegare quello che succede nel mio paese, da una parte perché credo che più che mai oggi ci sia necessità di parlare sopra divisioni e frontiere di cartapesta che tracciano come un brutto disegno ornamentale un corpo politico, l’Europa, che è unificato dai suoi stessi problemi, dall’altra perché, nel tentativo di spiegare, ho la certezza di prendere la migliore via per comprendere al meglio io stesso la situazione che vivo. Perché questa situazione è grave.

Per quanto in Europa dell’Italia si percepiscano – e si emulino nel merito – le reazioni dilettantesche e scomposte alla crisi libica, inizierò da un fatto apparentemente marginale: pochi giorni fa, sul “Manifesto”, uno dei giornali colti della sinistra e dell’estrema sinistra italiane, Alberto Asor Rosa ha invocato lo stato d’emergenza per salvare la Repubblica dalla deriva berlusconiana, proponendo in pratica un gabinetto di salute nazionale guidato da forze dell’ordine e magistratura. Intanto chi è Asor Rosa. Intellettuale e professore di letteratura nella prima facoltà di Roma, è uno dei padri nobili del pensiero italiano del dopoguerra, un letterato e un critico ponderoso e autorevole. Insomma, un buon vecchio borghese. Ma Asor Rosa è stato anche di più: di formazione marxista, credo si possa portare a emblema di quel gruppo di intellettuali della sinistra italiana che per posa e feticismo dell’avanguardia, miste al contempo a un forte slancio verso la giustizia sociale e alla ripulsa verso la situazione di democrazia bloccata in cui si trovava l’Italia della guerra fredda, posero i loro primi anni di lavoro e riflessione al di fuori dello spirito dell’ordinamento democratico e liberale, muovendo a questo critiche anche feroci, in genere innervate da un sentimento antagonista, che non vedeva in quell’ordinamento un orizzonte costruttivo, ma un qualcosa di errato da sostituire.

Adesso, Asor Rosa ha questa uscita assolutamente fuori luogo, se non pericolosa, che è però anche un disperato conato di conservazione, forse anche di amore, per tutto ciò che in gioventù e un poco oltre lui e i suoi compagni consideravano in fondo uno strumento storto da sostituire. Così, quasi tutti loro sono arrivati nel tempo a capire in un modo tragico come il vero problema delle democrazie liberali siano le persone che le animano come Stati, non le loro forme, le più malleabili e adattabili a ogni caso. Il vero problema che evidenzia questo che può sembrare un fatterello, per quanto curioso, è che il guardare ai nostri Stati, agli Stati della Rivoluzione, come a degli elementi fissi da criticare sentendosi a essi esterni, o da sfruttare in modo bieco senza un minimo di riflessione e di fiducia nei valori universali di cui sono portatori, significa decretarne la morte. Significa, soprattutto per coloro che si limitano a criticarli dall’esterno mossi da sentimenti di giustizia, doversi trovare a piangere sui loro cadaveri, sulle macerie di quelli che erano gli unici strumenti a portata di mano per promuovere proprio quei valori, proprio quel desiderio di crescita umana.

La questione di fondo, come sempre e sempre in modo utile per la riflessione, è che questo è un fenomeno integralmente europeo e l’essere italiano mi da solo la triste occasione di osservarlo in forme più spiacevole ed evidenti. A forza di perdersi dietro feticci di miglioramento, dietro progetti irrealizzabili, molto di ciò che di meglio c’era nelle generazioni che ci hanno preceduti si è incanalato su strade senza uscita, lasciando le frontiere di miglioramento reale a inaridirsi e lo spazio politico a sfasciarsi tra le zampe di sciacalli. Perché Berlusconi non è solo un “italiano bugiardo”, come diceva un cittadino francese intervistato dai giornalisti di Annozero, ma è un simbolo radicalmente europeo: uno spazio è politico se in questo si possono prendere decisioni sul modo di vita della comunità, a ogni spazio politico è associata la forza per eseguire queste decisioni e se quello spazio viene svuotato della sua dimensione politica, come è successo agli Stati-Nazione non più in grado di far fronte ai veri problemi odierni, arriverà qualcuno che li occuperà e userà quella forza, quegli apparati, a fini personalistici.

Sistemi di dialettica democratica hanno bisogno di poter accedere a veri orizzonti progettuali, per dar modo a vere forze progressiste di allargarli, di compiere la loro funzione pubblica sulla frontiera del sistema, e di un’integrale modalità di vita riconoscibile e difendibile, per dar modo a vere forze conservatrici di solidificarla, renderle onore, interrogarsi a proposito di questa e – nella necessità – difenderla lealmente. Se le parole democrazia e libertà nella nostra bocca non sono state solo sillabe dettate dalla vanità e dal caso, sarà uno dei compiti, Il compito, della nostra generazione costruire il nuovo spazio politico dove questo risanamento sarà possibile e la dimensione che le circostanze ci indicano, contro le piccolezze e le pavide follie che ci tocca ascoltare giorno dopo giorno, è continentale.

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