martedì 12 luglio 2011

Jenny Saville: chi ne vuole una fetta?

di Diletta di Paola
Pierre Bonnard affermava: “Non si tratta di dipingere la vita, ma di rendere vivente la pittura”.

Ed è lo stesso concetto che esprime Jenny Saville nelle sue tele, in cui donne e uomini sembrano voler essere vivi.

La donna di Bonnard è fragile e chiara.

Per quanto è sottile sembra confondersi con il paesaggio che la circonda.

Tutte luminose e femminili.

Al contrario la donna di Jenny Saville cupa e deforme.

 

Saville inizia i suoi studi “artistici “nel 1988 alla Glasgow school of art in Scozia; portandoli a termine nel 1992.

Viene notata per il suo talento dal grande collezionista d’arte e gallerista Charles Saatchi, il quale le commissiona un gran numero di quadri e proprio per questo motivo la Saville racconta di essersi rinchiusa nel suo studio per ben 18 mesi a lavorare per lui.

Nel 1997 la sua carriera verrà consacrata definitivamente dalla mostra collettiva “Sensation “, aderendo così al discusso gruppo degli “Young British Artists” tra cui: Damien Hirst – Marcus Harvey – Marc Quinn – Chris Ofili – Jake e Dinos Chapmann…

Numerosi sono i suoi brutali autoritratti.

“ I don't use the anatomy of my face because I like it, not at all. I use it because it brings out something from inside, a neurosis”.

Il collo incassato, la solita carnagione maltrattata (evidente citazione del pittore tedesco Lucian Freud) isolata dal resto del mondo.

Come dice lei stessa in un’intervista: “Da sempre si associa la corporeità maschile alla brutalità, si accompagna la violenza all'uomo più che alla donna e si rimanda l'immagine della femminilità ad una sorta di corporeità estetizzata, ma se prendi un corpo femminile, questo è un corpo estremamente violento, se pensi che ogni mese ogni donna sanguina, è come uno stato animale”.

Le sue pennellate vogliono esprimere l’estremo realismo della carne, che è al centro delle sue opere.



Questa centralità si evince in “Torso 2”, una grande tela in cui forti sono i richiami a “Carcass of beef” del 1925 di Chaïm Soutine.

Saville riprende il senso del crudo-violento espresso dal pittore, per dipingere la sua donna.

La appende in una cella frigorifera isolandola da ogni tipo di ipocrisia formale, riducendola ad una enorme bistecca pronta a farsi affettare da chiunque ne voglia un pezzo.

Nella forma e nella sostanza ricerca la sua brutale verità.

Da questo punto di vista è molto simile a Francis Bacon, da cui lei stessa afferma di aver appreso molto, soprattutto dal punto di vista teorico della deformazione “formale”.

Saville descrive questo concetto attraverso pennellate violente e rosse che, anche quando non sanguinano, danno all’occhio un senso di ferita.

Legge molti libri di teoriche femministe tra cui Luce Irigaray, ma è originale nel fatto di guardarci dentro senza confondersi nell’etichetta di femminista.

”Branded” in Italiano “Bollata”.

Quadro del 1992 .

Una enorme tela per una enorme donna, la testa piegata come volesse entrare per forza nel quadro con tutta la sua gigante carne.

Qui Saville critica e urla contro la violenza dell’ipocrita perfezione del corpo.

Su un seno di questa donna scrive “Supportive”, “Irrational” sull’altro e “Delicate” sul diaframma.

Lei pronta al macello della finta bellezza, va e si lascia marchiare, o meglio, “bollare” dai bisturi del chirurgo di turno, pronto a tagliare ciò che è grasso.

Saville racconta che le prime “grandi cosce” della sua vita furono quelle della sua insegnante di piano.

Racconta come fosse affascinata da quelle gambe così grandi e piene.

Lo sfondo di questi enormi quadri ha un ruolo fondamentale, in quanto afferma poeticamente la sostanza.

E’ uno sfondo vero, nudo, crudo.

Mette in risalto il soggetto ponendo in secondo piano ciò che lo circonda, ma raccontandolo attraverso gli sguardi della sua carne.

Saville gioca molto con il tema della trasformazione del corpo.

Parlando del suo quadro Passage : “It is like a modern architecture of the body. Penis and breasts all at the same time. It's electric, it's like wow! To see something in a way you have not looked at it before”.

Il suo sguardo “chirurgico” sul mondo femminile ricorda quello di un’altra grande donna e grande pittrice: Frida Kahlo.

Il lavoro che compie la Kahlo è però molto più introspettivo e autobiografico.

Ad esempio ne “La colonna spezzata” del 1944, la Kahlo si autoritrae sofferente.

Soffre per la sua condizione fisica e psichica, guarda al di fuori della tela con sguardo vitreo massacrato dal dolore.

Il fatto di essere entrambe donne non è banale.

Il fatto di appartenere allo stesso sesso dà in qualche modo una simile (se non proprio la stessa)concezione e modo di CONCEPIRE il mondo.

Dai loro quadri si percepisce lo stesso modo di amare e di voler vivere.

Entrambe hanno un forte bisogno di affermarsi.

L’una (Frida Kahlo) in prima persona, l’altra (Jenny Saville) attraverso la carne delle sue donne.

La Saville produce dei quadri che vanno “verso l’esterno”, Frida verso “l’interno”.

La prima vuole far riflettere la seconda inflettere.

Dopo un lungo soggiorno in Italia, terminato con l’acquisto di uno degli appartamenti dello storico palazzo Cutò di Palermo, è interessante notare come la pittura della Saville sia divenuta “patetica”. “Tutte le immagini che avevo usato in precedenza, i corpi tumefatti, le mani sanguinanti, i volti straziati, improvvisamente hanno acquistato un significato religioso”.

Rosetta ne è un esempio.

Racconta il suo incontro con questa ragazza cieca, di Napoli descrivendola come un personaggio romantico, chiusa nei suoi occhi.

“Normalmente quando osservi un volto sono gli occhi che ti catturano (…)dovevo catturare l'attenzione dipingendo il nulla”.

L’azzurro pallido degli occhi di questa ragazza sembrano pregare la società di essere più vera.

La grandiosità della Saville sta nella sua fedeltà alla “pittura da cavalletto” in un’epoca “artistica” che punta ormai a meravigliare con le più strabilianti invenzioni tecnologiche.

“Quando dipingi invece è solo la tua mano a operare, è così intimo, primitivo (…)se tu hai esperienza del tuo corpo, della tua carne, la tua carne deve essere di fronte alla carne del quadro, ed è questo che è così magico per me, è questo che mi spinge a farlo. È come incontrare un altro corpo, è molto più che vedere immagini sullo schermo di un computer o un'altra persona la cui rappresentazione sia un'immagine piatta.(…) Trovo tutto questo una straordinaria esperienza umana”.

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