giovedì 20 ottobre 2011

"This Must Be The Place": un film di musica, vita e poesia


di Martina Nasato
Mi piacerebbe recensire "This must be the place", ma è un'impresa ardua. Lo è perché il rischio di svilire quello che è un gioiello curato nei minimi dettagli è davvero alto. La trama è scarna, l'idea di fondo piuttosto bislacca, eppure questa pellicola è assolutamente perfetta.
Incontriamo sin da subito questa ex rock star, Cheyenne (interpretata da un meraviglioso Sean Penn), ormai cinquantenne, che, ritiratasi dalle scene, trascorrere la sua apatica vita a Dublino. Con la morte del padre, però, inizia la sua altrettanto apatica ma inesorabile ricerca del criminale nazista che, durante la seconda guerra mondiale, aveva umiliato l'ormai defunto genitore, in un lager.
L'ex rock star di mezza età, con tanto di vezzosi occhiali per la presbiopia, attraversa gli Stati Uniti in un viaggio che la porterà alla scoperta di sé.
Il personaggio ricorda più una figura letteraria, il protagonista di un romanzo, che quello di un film. È lo scorrere della sua esistenza a cui fanno da sfondo molte vite. Vite americane, riprese da occhi europei. Microcosmi costellati di fobie, assurdità, banalità umane e strade immense da percorrere assieme per brevi tratti.
Meravigliosamente decadente, Sean Penn si presenta come un triste incrocio fra Edward Mani di Forbice e Crudelia De Mon. Ha tutto il candore di un bambino e la sua semplice logica nel porre domande e nell'esprimere considerazioni che gelano il pubblico in una risata d'incredulità. Ma Cheyenne è anche un ex eroinomane, il quale porta evidenti i segni del suo passato (ricorda, nei movimenti, Ozzy Osbourne, al quale, forse, Sean Penn si è ispirato): si è fritto parte del cervello con l'eroina, ma fortunatamente non la parte migliore, quella sarcastica e, a tratti, caustica.
I dialoghi sono vivi, ricchi di battute esilaranti, ma a farla da padrona è la musica, bellissima, che in "This must be the place" riveste un ruolo centrale. Al punto che il titolo del film è ripreso da una canzone dei Talking Heads.
La fotografia, mai uguale a se stessa, arricchisce il tutto con immagini splendidamente corpose.
Sorrentino dirige con eccellente perizia questo poetico valzer di personaggi balzani. A tratti grottesco, un dramma esistenziale estremamente intimo e delicatissimo, fatto di sentimenti sussurrati.
In sala si ride spesso, di gusto, inevitabilmente. Ma, davvero, non c'è nulla da ridere.

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